In questo post vi parlo di un’espressione molto usata della lingua giapponese e dalle molte sfumature: il verbo gambare suru, impegnarsi strenuamente.
È un’espressione ubiquitaria e sulla bocca di tutti, spesso proferita senza darci un peso particolare ma che può risultare pesante per alcune persone.
Sarebbe più corretto scrivere ganbare suru, perché la m davanti a consonante non esiste in giapponese.
Ve ne parlo attraverso il racconto di un’esperienza recente.
Arrivata al bordo della piscina, mi calo nella vasca. Nella corsia accanto alla mia, tre signore anziane camminano su e giù i 25 metri della sua lunghezza. Il resto è una fila di corsie senza nuotatori.
Da un po’ di tempo elimino lo stress accumulato durante la settimana con una nuotata. Mi immergo nell’azzurro della vasca e lascio che lo stress, piano piano, si sciolga nell’acqua.
Eppure anche in questo contesto decisamente poco agonistico non mancano mai i cinque o sei “Gambatte!”.
< Gambatte!> Impegnati!
Con un sorriso le signore anziane mi guardano nuotare e appena mi fermo non mancano di elargire complimenti per le mie imprese natatorie e a incoraggiarmi a fare il mio meglio.
< Gambatte!>
Sì, per migliorare non si può fare altro che fare gambare, cioè impegnarsi.
Gambatte trasuda di sforzo, lavoro, sudore. È una parola che non armonizza con la natura dei miei progetti domenicali: rilassarmi in piscina.
Di fatto nessuna delle vecchiette si aspetta che io mi alleni di più, tuttavia, e con leggerezza…
< Gambatte!>
Gambatte farcisce ogni conversazione in Giappone e il suo abuso quasi ne svuota il significato. Almeno, così a me pare.
Tuttavia, proprio il suo carattere ubiquitario fa sì che questa espressione diventi uno specchio di ciò che la società si aspetta da te come persona.
Per raggiungere mete e sogni è chiaro che occorre sacrificio e dedizione ma il richiamo a questo spirito in ogni occasione può fare nutrire l’idea che lo sforzo fatto non sia mai abbastanza in relazione alle aspettative, ad esempio sul lavoro, nello studio, negli sport.
Per alcune persone, fare di più e continuare nello sforzo, anche oltre alle proprie possibilità fisiche o psicologiche, diventa un metro della propria autostima e del proprio grado di appartenenza alla società delle persone lodevoli.
In campi delicati e personali come quelli della malattia nessuno dice “gambatte” perché la parola metterebbe in evidenza la difficoltà, il cammino difficile per raggiungere la salute.
Tuttavia l’oncologo Kamata Minoru pensa che la filosofia del gambare disturbi i suoi pazienti. Con il motto gambaranai akiramenai, non lotto non mi arrendo, da anni porta avanti una campagna per alleviare i malati oncologici dal senso opprimente del dovere fare gambare e mostrarsi forti verso il mondo, escludendo la possibilità di lasciarsi andare.
Gambaranai akiramenai, è essere come ci si sente ma non arrendersi alla malattia.
Non so se in Italia ci siano tanti libri che invitano all’indulgenza verso sé stessi (aspetto un vostro commento a riguardo) ma, in Giappone, gli scaffali delle librerie ne sono pieni zeppi e credo che ciò attesti il grande peso sociale dell’espressione gambatte sulle persone.

